Conversazione con Tim Power

ArchiMagazine

This Conversation between Tim Power and Ivana Riggi, conducted in Italian on the 16th of April 2011, discusses various aspects of the practice of TP/A, covering a selection of the studios projects as well as some background of Tim Power.  The succinct but wide ranging interview covers a cross-section of the works of TP/A, from Design, to Interiors to Architecture, discussing the interrelated nature of these different fields of professional practice and research. Questions focus not only on the numerous commercial successes of TP/A, but also include reflections of past professional experiences, future strategies, the opportunities for a foreign Architect in Italy, and the challenges and relevance of working in the public sector.

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Conversazione con Tim Power

 

di Ivana Riggi

È la settimana del design week milanese, in questo 2011 i Saloni compiono cinquant’anni e il capoluogo lombardo è un continuo fermento. La mia conversazione con Tim Power avviene fuori dal caos in un luogo appartato dei giardini del Triennale Design Museum. Il suo atteggiamento è semplice; è un uomo molto simpatico.

Architetto, la ringrazio per la sua presenza. Nato a Santa Barbara nel 1962. Quando e come mai è arrivato in Italia?
Sono arrivato in Italia, a Firenze, la prima volta per studiare tramite la California Polytechnic State University che ha sede distaccata sia in Italia che in Danimarca; scelsi la prima perché mi affascinava la storia. Ho studiato con due personaggi molto importanti: Cristiano Toraldo di Francia di Superstudio e Gianni Pettena che è uno dei più importanti storici dell’architettura italiana, sopratutto di quella “radicale” che ha segnato un momento incredibilmente importante nella contemporaneità.

Siamo diventati subito amici e, dopo la scuola, Cristiano mi ha chiesto di collaborare con lui a Superstudio. Dopo un po’ di tempo, vista la realtà difficile di Firenze  per quanto riguardava la prospettiva di lavoro per i giovani, sono ritornato in America. Qui ho lavorato abbastanza sia con studi molto creativi piccoli che grandi; ho fatto un po’ di progetti per mega strutture come alberghi, biblioteche e altro; mi sono occupato anche di microstrutture e opere artistiche, per degli studi tra le più importanti a San Francisco in California.
Successivamente sono tornato nuovamente in Italia per motivi più personali e sono stato chiamato a lavorare per tre settimane, che poi divennero quasi cinque anni, allo studio di Sottsass. Da quel periodo lì a oggi vivo in Italia da esattamente un ventennio. La mia è iniziata quindi come la classica storia dello straniero a Milano anche se qui ci sono più designer stranieri che architetti provenienti dall’estero forse pure per alcune logiche politiche legate al lavoro…

Mi parlerebbe delle esperienze fatte con Superstudio, Claudio Nardi e Sottsass Associati? Ha qualche ricordo in particolare di quel periodo di cui le andrebbe di parlare?  Non so un episodio, un insegnamento che ha portato con sé?
Sono esperienze che appartengono a diversi momenti della mia vita, di conseguenza mi hanno anche arricchito in maniera diversa. La prima, come le ho detto in precedenza, è stata fatta con Superstudio con cui ho lavorato per un anfiteatro a Cefalù, per vari lavori per la Ferrovia Statale e tanti progetti urbani. Di questo periodo rammento l’incredibile quantità di studi disegnati manualmente e in pochi (eravamo tre o quattro). Ciò che ricordo maggiormente di Cristiano è la grande fermezza e passione con cui si dedicava ai progetti per poi riuscire ad affermarli. Era uno studio che lavorava con grandissima serietà e abbracciava un po’ tutto: l’antropologia, la storia, l’umanità e la poesia.
Claudio Nardi era un po’ più giovane di Toraldo di Francia e con lui ho avuto un rapporto più fraterno; allora disegnavo benissimo a mano, scoprì questa mia qualità attraverso alcune pubblicazioni e così disegnai per lui.
Sottsass è stato uno dei personaggi più grossi dell’architettura e del design italiano. Prima di quelli della sua generazione c’è stato poco di ciò che oggi si chiama “design”, dobbiamo molto alla loro capacità di fare, di dire anche contro tendenza, con grandissima cultura e capacità di guardare il mondo e proporre le cose. Il mestiere del design lo hanno inventato in quel periodo. Ciò che ricordo di lui è la grande generosità, la possibilità che dava ai giovani di ventiquattro, venticinque anni di girare il mondo, andare nei cantieri. Ci lasciava non completamente liberi, perché comunque dovevamo seguire la sua visione, ma aveva una fiducia incontenibile nella gioventù. Aveva settanta anni quando l’ho conosciuto ma era mentalmente fresco, giovane, e aveva una capacità reattiva, d’incazzarsi con il mondo pazzesca; si arrabbiava molto perché amava molto il nostro pianeta.

Che differenza nota tra il design di allora e quello di oggi?
Allora c’era molta più ricerca. Il design non era ancora un mestiere ma la scala minore dell’architettura; si disegnavano gli oggetti “da architetto” per cui era molto più legato alla cultura dello spazio, delle persone e poco al branding, al marketing delle ditte. D’altro canto le aziende di allora, quelle storiche, erano molto più radicali nelle loro posizioni, anche perché forse c’era meno concorrenza e si poteva sperimentare assieme ai progettisti; erano meno incatenate ai numeri.
Oggi tutto è molto più complesso… ci sono più ditte, molti più designer, il branding ha più importanza e si guarda quindi più all’aspetto commerciale. Ciò non vuole essere un giudizio, perché tutto ciò che facciamo è legato al commercio e al guadagno, ma forse questo sistema ha danneggiato la ricerca. È cambiato anche il rapporto tra gli architetti-designer e le aziende che allora era proprio di amicizia. C’era una continuità nella relazione che durava quasi per sempre. Oggi tutto è più fluido, ma meno legato a quel tipo di familiarità e più al marketing; credo che ciò si rifletta nel prodotto.

Un progetto di quest’anno è l’interior design degli uffici, per la multinazionale Texas Instruments,  a Parigi. Dove sono allocati e in cosa consiste il vostro intervento?
Noi lavoriamo con Texas Instruments da circa quattro anni, progettiamo per diverse multinazionali, ma non siamo prettamente esperti solo “di uffici”. Il nostro lavoro è molto trasversale, essendo architetti e designer, l’ufficio ci interessa molto perché lo consideriamo quasi una piccola città, una sorta di comunità ideale con tutte le divisioni tra spazio pubblico e privato. Quando ci chiamarono allora fu per un piccolo progetto a Milano; non avevano molta cognizione di mobili e illuminazione cosa quest’ultima su cui insistetti molto. Quando il presidente europeo della società vide il nostro lavoro restò molto contento e ci chiamò per farne altri. A Nizza abbiamo fatto un masterplan molto grande.  Il progetto a Parigi è sulla Senna in un quartiere, che è stato storicamente la sede della Renault,  che è stato dismesso dalla produzione di macchine e il cui master planning è stato fatto da Jean Nouvel. L’edificio in cui è presente il nostro intervento di interni è stato progettato da Norman Foster; si tratta di un contesto culturale e tecnologico molto interessante che ci ha entusiasmati e stimolati prendendone molti spunti. È stato un periodo in cui abbiamo preso casa a Parigi seguendo l’intero cantiere con molta soddisfazione.
In questo momento stiamo partecipando e tenendo molte conferenze sull’ufficio cercando di portarvi un design di qualità che soprattutto in Europa è poco conosciuto in questo settore.
Ultimamente per Texas Instruments ci sarà un altro progetto proprio a Catania, nella sua terra, in Sicilia.

Nel 2009 lo Studio Power si è aggiudicato il 3° posto al concorso internazionale–Housing Sociale – Una Comunità per Crescere , Via Cenni, Milano–Italia. Cosa richiedeva il bando? Visto il tema avete seguito anche un percorso etico nel vostro iter progettuale?
Da due, tre anni il Social Housing sta finalmente prendendo piede a Milano e in Italia; ho seguito un progetto di Social Housing anni fa a Firenze con Superstudio. Nei ultimi anni in Italia, ho l’impressione che ci si sia dedicato ad altro trascurando l’aspetto sociale che credo sia stato dimenticato anche dalla stampa. Questa attuale rinascita è legata anche a alla creazione dei fondi, incentivati dal governo. Il bando prevedeva un certo numero di appartamenti di tre, quattro tipologie che noi abbiamo fatto diventare molte di più perché non le ritenevamo sufficienti. Quindi,  abbiamo configurato ogni tipologia richiesta per farsi che potesse declinarsi in quattro, cinque differenti. Abbiamo creato un vero landscape dove si trovavano delle case tenendo conto dell’orientamento e posizione geografica del luogo. Per questo lavoro abbiamo seguito profondamente alcuni dei patterns presenti nel libro A pattern language di Christopher Alexander, ma abbiamo completamente stravolte alcune richieste, cercando di essere molto generosi anche sugli spazi esterni. Il terzo posto ci ha fatto molto piacere.

Un altro progetto affascinate e credo molto gratificante è il Celux, LVMH Concept Store, Louis Vuitton Building  a Tokyo nel 2002. Si è trattato di un committente molto importante, di un colosso. Cosa vi è stato chiesto di realizzare? L’architettura, come l’interior design, sono degli interventi proiettati a “durare nel tempo”; la moda è, invece, un continuo divenire. Progettualmente come ci si incontra?
L’edificio è stato disegnato da Jun Aoki, il quale è diventato dopo amico e collega … Gli interni sono stati realizzati insieme a In House Architecture Department Louis Vuitton. Celux è nato come un club, un negozio privato ma non esclusivamente per ricchi; il nostro progetto ha utilizzato sia materiali esclusivi e costosissimi, con altrettante tecniche di lavorazione, che poveri e semplici  perché collocati in situazioni decontestualizzate come ad esempio il linoleum sui muri. Abbiamo creato anche un mix tra tecnologia e natura. Siamo stato lasciati più o meno molto liberi e abbiamo fatto con piacere tantissimi viaggi a Tokio. Non abbiamo voluto realizzare un involucro rigido, ma volutamente flessibile nel tempo come lo è la moda. Celux ha chiuso un anno fa, non per motivi architettonici, ma legati al business plan. Oggi l’involucro, spostando via i mobili, è rimasto comunque valido per altre funzioni, esattamente come avevamosperato, e  questo ci fa piacere.

Spostiamoci sul design. Nine Hundred Gram Chair (2009), una seduta più leggera possible. In che materiale è e come è stata realizzata? Siamo nell’ambito della sperimentazione?
Sì siamo nell’ambito della sperimentazione, è stata realizzata per una mostra con due confezioni di spaghetti, per un costo massimo credo di tre euro, però con il peso finora minimo (900 grammi), per quanto sappiamo, di una sedia. La forma superiormente è molto classica e si rifà a una sedia di Charles Eames; sotto è una sorta di nuvola quasi casuale, più una scultura che un prodotto industriale.

C’è un progetto di design a cui è particolarmente legato?
Sì il primo che ho fatto, che lega un po’ la storia vissuta con Sottsass con quella di oggi. È una sedia, si chiama Chip Chair, in vetro curvo e progettata in quattro ore. È presente in diverse pubblicazioni di design. Quando ho salutato Sottsass  ero un po’ stanco del “carico di significati”: colori, emozioni e altre elaborazioni culturali. La mia direzione attuale è forse molto più legata alla leggerezza, alla scienza, alla natura e alla luce, meno alla cultura comportamentale emotiva. Questa sedia è stato quasi un progetto “senza peso culturale”, “senza segno”, miravo molto più alla luce infatti fu pensata in vetro trasparente. Il giorno che lasciai lo studio di Sottsass disegnai questo progetto che fu quasi una “purga”, un modo per staccarmi da quel mondo e avvicinarmi maggiormente al mio.

Per concludere: un progetto che le piacerebbe realizzare e un committente per cui le piacerebbe lavorare?
Nel nostro lavoro ci muoviamo a diverse scale. Lei, architetto,  che progetta gioielli mi può capire molto bene, ogni scala ha la sua rilevanza. Una delle lezioni più importanti che io abbia mai ricevuto da architetto è il film Powers of Ten di Charles e Ray Eames che ci fa capire le connessioni tra le cose dalle più piccole alle più grandi. Il fatto che il mio studio si stia spostando verso progetti più ampi non è un fatto di megalomania, direi quasi l’apposto, perché credo che manchi, non solo in Italia, la tendenza a ricordare in modo civile la comunità. La nostra ormai è una cultura più individuale che tende a rivolgere l’attenzione più sul design residenziale, sulla casa e sui beni personali.

Quindi è una società più egoista?
No è forse più che altro nata da un rapporto più intimo con l’oggetto, che potrebbe essere dovuto a una mancanza di fiducia nella politica. Questa atteggiamento e capacità nel mondo di design è stato importantissimo adesso, però, mi piacerebbe spostarmi sul landscape o territorio urbano e naturale inserendoci naturalmente anche l’architettura. Certo, è molto complicato. È molto più facile rilevare la propria famiglia, la propria casa, i propri oggetti…
Una serie di lectures fatte ultimamente ha sostituito, un po’ umoristicamente, il detto dal cucchiaio alla città con dal landscape al cibo. Lei che è italiana sa sicuramente l’importanza di quest’ultimo che è legato al territorio in cui si vive. Oggi mi interessa qualsiasi progetto che mi aiuti a chiudere questo cerchio.
Credo che non esista solamente un progetto ideale possono essere tutti ideali e alcuni anche sofferti.

Timothy Power si laurea in Architettura al California Polytechnic State University, San Luis Obispo nel 1985; ottiene una seconda laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel  2005. Si è iscritto all’Ordine degli Architetti, P.P.C della provincia di Milano nel 2006.

Dal 1987 al 1996 collabora con gli studi Superstudio, Claudio Nardi e Sottsass Associati in Italia e vari studi d’Architettura e Design in California.
Nel 1996 fonda TP/A_Tim Power Architects, come studio specializzato in Architettura, Architettura d’Interni ed Industrial Design.
TP/A_Tim Power Architects ha disegnato progetti d’Architettura e Design di Interni per numerosi clienti privati noti nel mondo dell’arte, della tecnologia, della moda e della pubblicità; tra questi Louis Vuitton, XYZ Communications, Motorola, Muji, Switch, Preziosismi, J. Walter Thompson, and UCI (Paramount), Lexus,  Samsonite e Yoshie Inaba.
Tim Power ha progettato prodotti industriali, mobili e oggetti per Zeritalia, Poltronova, WMF, Montina, FeliceRossi, Oluce, David Design, BRF, Alfi, Rosenthal, FontanaArte, Mitsubishi, Cassina/Interdecor e molti altri.

Tra le installazioni e la partecipazione ad attività culturali si ricordano: la Biennale d’Arte di Venezia (Padiglione Tedesco 1999), la Biennale di Design (St. Etienne, 1999) e l’attività di consigliere della Biennale d’Architettura di Venezia (2000,  Sezione  ‘Radical’).

I lavori dello TP/A_Tim Power Architects sono stati stati esposti a Milano, Firenze, San Francisco, New York, Barcellona, Tokyo, Londra, Colonia e Venezia, e pubblicati nei migliori libri e riviste di Design e Architettura.
Timothy Power ha tenuto corsi all’IED di Milano, Venezia e Torino e alla Domus Academy di Milano. È Professore a contratto presso la scuola di Disegno Industriale del Politecnico di Milano.